Cersaie 2017 conferma la supremazia del made in Italy quando si parla di piastrelle per l’architettura e di arredobagno anche se il +5,4% di produzione 2016 in Italia (416 milioni di metri quadrati) va ai cinesi che producono in autarchia la metà degli oltre 12 miliardi di metri quadrati di piastrelle posate ogni anno sul pianeta.
Con 4,6 miliardi di euro di export e un prezzo al metro quadrato medio di circa 14 euro, pari al doppio del listino spagnolo e turco e quasi tre volte quello cinese, «la ceramica italiana riesce ancora a restare leader sui mercati internazionali per innovazione di prodotto e processo, grazie a una rivoluzione nelle nostre fabbriche che ha addirittura anticipato il piano 4.0 del Governo e ha introdotto nuove metodologie produttive», spiega Vittorio Borelli, presidente di Confindustria Ceramica, che rappresenta un settore da 6,2 miliardi di fatturato (per l’87% legato alle piastrelle, seguite da refrattari, sanitari e stoviglieria), con 225 industrie e quasi 25mila addetti. Gli incentivi del piano Industria 4.0 hanno infatti impresso un’ulteriore accelerazione degli investimenti su automazione e digitalizzazione. Lo conferma la produzione di macchine per ceramica (le industrie aderenti ad Acimac): le vendite di tecnologie in Italia nei primi sei mesi dell’anno sono aumentate quasi del 60% (del 59,7% per la precisione), contro il +3,7% all’estero.
Il 2016 ha visto per la prima volta interrompersi la dinamica negativa in Italia, dopo otto anni in caduta, con un +3,2% di vendite a 83 milioni di mq, un 20% dei 416 milioni di mq prodotti. Per il made in Italy la prospettiva è continuare a ritagliarsi la nicchia top d’eccellenza, in una piazza globale dove sarà il manufatto cinese ad accaparrarsi un terzo dell’export mondiale (contro il 12% della produzione italiana).
A far quadrare fatturati e margini delle 147 imprese italiane produttrici di piastrelle (per 19mila dipendenti) sono oggi soprattutto le vendite verso Stati Uniti ed Europa, mercati storici del distretto. «Germania, Francia, Austria, Svizzera e in generale il Nord Europa sono la vera sorpresa anche per questo 2017. Paesi vicini, facili da servire anche dal punto di vista geografico e in cui siamo leader in termini di quote di mercato; i nostri competitor diretti spagnoli e turchi gravitano invece più sul bacino Mediterraneo dove la piastrella è vista come una commodity a basso prezzo», aggiunge Borelli.
Resta sotto tono il mercato domestico. «L’Italia resta il grande malato – ammette il presidente– la domanda è piatta e pensiamo di doverci abituare a questa nuova normalità». A fronte della stasi dell’edilizia residenziale le industrie ceramiche hanno però saputo ritagliarsi nuovi spazi per crescere, sdoganando la piastrella dal rivestimento domestico per rubare quote ad altri materiali e applicazioni nell’arredamento e nell’architettura da esterni, grazie in particolare alle grandi lastre, il driver dello sviluppo negli ultimi anni e must negli stand di Cersaie. «Le grandi lastre aprono ora scenari nuovi in termini di flessibilità e versatilità – spiega il presidente, con la premessa che i formati tradizionali sono ancora il core business business delle imprese – perché la lastra si presta agli usi più diversi, può essere tagliata, bucata e sagomata per le forme più varie, come un tessuto che il sarto adatta a ogni corpo da vestire».
Ma la vera forza del made in Italy ceramico è la presenza di una filiera completa. A fianco di chi lavora argilla e sabbie ci sono scuole, industrie meccaniche, colorifici, designer. «Veniamo fortunatamente da collaborazioni radicate nel distretto, tanto con le scuole quanto con i costruttori di tecnologie e materiali: questa organizzazione di filiera strettamente integrata è la spirale virtuosa da cui nasce la nostra superiorità tecnologica, di prodotto e di innovazione che non è replicabile altrove; ora siamo rafforzando la collaborazione sia con gli istituti tecnici superiori sia con le facoltà di Economia e Ingegneria delle Università», racconta il presidente di Confindustria Ceramica. Che parla di «forti investimenti sul tema formazione, diventato l’elemento più strategico per far funzionare la fabbrica 4.0, perché le nuove macchine installate richiedono logiche e linguaggi diversi nell’interazione con l’uomo».